Come a volersi godere al massimo gli ultimi minuti della sua permanenza nel più piacevole dei salotti, la signora Ridell si raggomitolò ancora di più sulla grande poltrona davanti al camino, dove le mele avevano appena finito di arrostirsi sul fuoco. I suoi occhi si posarono sulle due donne, madre e figlia, sedute poco distante al chiarore della lampada, la prima con il suo lavoro a maglia, la seconda con l’album da disegno. Cosa esattamente rendesse così piacevole la stanza, ampia e bassa, era difficile a dirsi. Forse i tanti angoletti così gradevoli, forse lo stile curato e personale di ogni minimo dettaglio, forse anche la calma, calda serenità che emanava dalle due donne, intente alle loro attività.

- Lisen cara, - mormorò sonnolenta dalla sua poltrona, - si sta così bene che non ho nessuna voglia di uscirmene fuori alla pioggia e al freddo. Voglio restare qui da voi. La vostra dev’essere la famiglia più felice al mondo.

- Può darsi - disse la signora Lisen guardando il suo lavoro a maglia con un sorriso. - Tocchiamo ferro. Forse non dovrei passarmela così bene. Non me lo merito.

- Ma che dici, mamma! - disse Annika in tono di rimprovero alzando gli occhi dall’album da disegno. - Chi se lo merita se non tu, che sei la più gentile che ci sia!

- Uff! - fece la signora Ridell facendo capolino dal suo cantuccio. - Sentite che vento che tira, e come piove! Ed io che devo uscire proprio adesso!

Proprio in quel momento, una folata di vento colpì la finestra, che sbatté rumorosamente. Fuori era calata l’oscurità della sera e poche lanterne illuminavano le strade del villaggio, di cui non si riusciva a scorgere la fine. Le tre le donne rabbrividirono al suono della pioggia sul vetro, e quel brivido accrebbe ulteriormente la sensazione di tepore e di benessere che provavano. Come i gerani al di qua dei vetri bagnati, erano al riparo, protette da ogni male.

Dal piano di sopra giunse un leggero scricchiolio. La signora Ridell ascoltava: erano passi che facevano avanti e indietro, avanti e indietro. Doveva trattarsi della figlia minore, Kerstin, che si era ritirata nella sua stanza subito dopo il tè.

- Com’è inquieta lei, lá sopra! - disse la signora Ridell.

- Sì, proprio inquieta, - fece Lisen Dunker dopo una breve pausa. - Kerstin é uno spirito tormentato. Sarà la giovinezza - passerà.

- Va bene, mamma, ma sono mai stata così, io? - obiettò Annika. - Non vorrai venirmi a dire che non sono stata giovane proprio come Kerstin?

Per tutta risposta, la signora Dunker sorrise. Poi, quando il sorriso si spense, sospirò. La signora Ridell si alzò.

- Salutatemi tanto Georg! - disse. - Mi dispiace che la sua riunione stia andando tanto per le lunghe.

Nello stesso preciso istante, si sentirono dei passi provenienti dal primo piano e uno strusciare di piedi sullo zerbino. Poco dopo si udí la chiave girare nella serratura. Georg Dunker fece capolino, bagnato fradicio ma allegro. Grosse gocce di pioggia intrappolate nelle sue sopracciglia grigie scintillavano alla luce della lampada ed il suo volto, arrossato dal vento sferzante, s’illuminò non appena il piacevole tepore dell’interno lo raggiunse. Si sfilò il soprabito bagnato ed entrò come si entra ad una festa. La signora Ridell avrebbe potuto pensare che fosse la sua presenza a rendere la serata così lieta, ma conosceva la famiglia e non lo fece. In quella casa, ad ogni modo, di troppo non ci si sentiva mai e in nessun altro luogo era così facile sentirsi a casa. Doveva pur restare ancora un pochino e condividere la gioia che Lisen ed Annika provavano nel veder tornare a casa marito e padre.

Poco dopo, qualcuno scese le scale in punta di piedi e si mise a frugare tra i cappotti nell’ingresso, cercando chiaramente di fare il minor rumore possibile. Proprio perché quel qualcuno era così silenzioso e attento a non farsi notare, l’intera famiglia si mise in ascolto, e Georg Dunker chiese:

- Stai uscendo, Kerstin?

- Sì, pensavo di fare due passi fuori, - rispose fredda e quasi scostante una voce di ragazza.

Nessuno ebbe nulla da obbiettare, ma tra i familiari ci fu uno scambio di sguardi. Parve che dall’ingresso, dove la ragazza se ne stava in silenzio, nascosta alla loro vista, li avesse raggiunti una folata di vento freddo. “Un angelo che attraversa la stanza”, pensò la signora Ridell, ma subito dovette ribattere a sé stessa che, se quello era un angelo, gli angeli erano creature alquanto inquietanti.

Quando Kerstin tornò a casa, Annika si era giá coricata nella loro camera da letto.

- Accendi pure la candela, tanto non mi sono ancora addormentata, - disse mentre la sorella cercava di spogliarsi al buio. Kerstin l’accese. Il suo viso era rosso fuoco dopo la passeggiata nel tempo inclemente.

- Sai, certe volte può essere piacevole camminare nel vento sotto la pioggia, - disse con fare di scusa. - Mi aiuta a calmarmi un poco, quando mi sembra di aver bisogno di qualcuno da prendere a pugni.

Annika, distesa, socchiuse gli occhi verso la luce.

- Dormi meglio la notte, adesso? - chiese a bassa voce.

Kerstin scosse la testa.

- Ma non dir niente alla mamma, - la pregò. - Si preoccupa e basta.

Nella stanza calarono di nuovo il silenzio e le tenebre. Annika, distesa, rifletté per un momento su quella sorella fonte di tante preoccupazioni, l’ombra sul loro idillio, la nervosa Kerstin, che prendeva tutto così sul serio, ipersensibile agli aspetti dolorosi dell’esistenza. Ma fu solo un momento e presto si addormentò.

I mesi più bui dell’anno si aprirono dinanzi a loro come una galleria scura, che inghiotte i viaggiatori per lasciarli uscire alla luce del giorno solo ai primi indizi di primavera. A dispetto della sua indole allegra, Annika era stanca ed abbattuta. All’Accademia di Belle Arti aveva sofferto per il comportamento di alcuni compagni.

Un pomeriggio, tornando a casa, trovò la madre pallida, con un’espressione angosciata sul volto.

- Fai piano! - chiese alla figlia. - Georg si sentiva così male che oggi è tornato a casa nel bel mezzo del suo turno di lavoro…

Annika ricambiò il suo sguardo spaventato. Senza che nessuno ne pronunciasse il nome ad alta voce, lo spettro della meningite, di cui si erano registrati diversi casi nell’area di Stoccolma, fece il suo ingresso nella stanza.

- Hai fatto chiamare il medico? - chiese Annika. Vedendo la madre annuire, aggiunse: - Dov’è Kerstin?

- A lezione, all’università. Non oso pensare a come reagirà alla notizia…

Il medico arrivò, ma si espresse in modo ambiguo. Ad ogni modo, raccomandò che il paziente fosse trasferito in ospedale in ambulanza. Proprio mentre l’ambulanza era per strada, Kerstin arrivò al cancello, si fermò un attimo e proseguì lentamente lungo il sentiero di ghiaia.

La signora Dunker le venne incontro ancora sulla soglia.

- Papà è malato! - disse, e nella tensione del momento abbracciò Kerstin, cosa che altrimenti non le riusciva mai di fare. - Non aver paura, non aver paura, magari non è niente di grave…

Ma il suo respiro ansimante e i suoi movimenti concitati parlavano un’altra lingua. Allora Kerstin le strinse saldamente le mani tremanti e con voce molto calma, molto ferma, le disse:

- Ascolta, mammina, noi non possiamo farci niente! Possiamo solo aver pazienza e vedere cosa succede! Adesso entra e siediti un momento!

La signora Dunker guardò la figlia minore nei severi occhi blu, con un misto di gratitudine e leggera vergogna. Nel profondo del cuore sentiva di non desiderare altro che affidarsi a quelle mani salde e quella voce ferma, come una bambina piccola… Ma non era una bambina, era una madre, e le spettava organizzare e prendere decisioni. Avrebbe accompagnato Georg all’ospedale, ed era già pronta ad andare , tranne che per qualcosa che non riusciva a ricordarsi. Kerstin le fece notare che si trattava del cappello.

Nella sua stanza al piano di sopra, Annika stava seduta, impietrita, a guardare l’ambulanza che si allontanava. Quando sentì Kerstin entrare, non si voltò.

- Ti ricordi che domani è domenica? - domandò Kerstin. - Tilda non sa niente, e mamma non è riuscita a predisporre nulla. Sbrighiamoci, prima che i negozi chiudano.

- Riesci a pensare al cibo in questo momento? - chiese Annika stancamente.

- Certo che sì, e adesso mettiti cappello e cappotto e vieni con me, tu che sei più pratica di queste cose.

Con scarsa convinzione, Annika obbedì. Lungo il cammino, ad ogni modo, la calma fermezza della sorella la costrinse a darsi un contegno, se non altro in modo tale da rispondere e comportarsi come al solito. Inevitabilmente, dal momento che sapeva meglio di Kerstin quali fossero le cose che mancavano in casa, toccava a lei riordinare le idee e decidere cosa bisognava comperare. Tuttavia, avere lo sguardo di Kerstin puntato addosso per tutto il tempo l’aiutava.

La madre tornò tardi la sera, e le tre non scambiarono che poche parole prima di coricarsi. Annika non riusciva a dormire. Ad un certo punto dovette finalmente essersi assopita, perché tutto ad un tratto fu riportata alla realtà da Kerstin, la quale, in vestaglia e pantofole, stava attraversando la stanza dirigendosi verso la porta, che aprì leggermente.

- Che succede? - chiese Annika nel dormiveglia.

- Mamma ha la luce accesa, si vede attraverso il buco della serratura, rispose la sorella. Ha bisogno di dormire. Ti dispiace se accendo e tiro fuori le mie pillole?

Non appena lo ebbe fatto, spense la candela e uscì silenziosamente, ma non chiuse del tutto la porta dietro di sè. Annika si alzò a sedere ed ascoltò, senza riuscirne e a distinguere le parole, il suono delle due voci, l’una lamentosa e spaventata, l’altra suadente e rassicurante, che la raggiungeva appena. Infine le voci tacquero, solo la prima emetteva di tanto in tanto qualche gemito. Quando il silenzio calò del tutto, Kerstin tornò indietro in punta di piedi.

- Dorme, - disse. Non è che anche tu hai bisogno di una pillola?

- Non credo. Non importa quanto triste io sia, riesco sempre ad addormentarmi.

- Bene, - disse Kerstin in tono di approvazione infilandosi sotto le coperte.

Dopo che dall’ospedale giunse la terribile notizia che si trattava effettivamente di meningite, si susseguirono giorni e settimane da incubo. Il malato non poteva ricevere visite, soltanto per telefono ci si poteva informare sulle sue condizioni. In casa, la signora Lisen Dunker non era mai veramente presente, benché facesse continuamente avanti e indietro tra le scale e le stanze. Aveva sempre avuto qualche difficoltà a ricordarsi le cose, ma in quel periodo dimenticava tutto. Le due ragazze rimasero a casa in quarantena e Tilda, in cucina, si assicurava che i fattorini lasciassero le consegne a distanza di sicurezza, ai piedi delle scale fuori dalla cucina. Annika era assente, proprio come la madre. Non era la memoria a venirle meno, ma sembrava aver perso ogni industriosità. Quando una disgrazia si abbatte come un fulmine sulla famiglia più felice del mondo, tutto improvvisamente appare privo di significato. Solamente Kerstin era piena di spirito d’iniziativa, al punto che le sue forze bastavano per tutte e tre.

Quando Annika, rossa di pianto, se ne stava da sola, seduta nella penombra della loro stanza, Kerstin entrava, posava una mano sulla sua spalla e se ne restava lì a lungo, in silenzio. Non era mai stata particolarmente affettuosa, Kerstin, e non lo era neanche in quel momento. Non le era mai stato facile trovare le parole giuste, e non le era facile neanche in quel momento. Eppure, l’intera sua persona emanava una forza tenace e silenziosa che trascinava le altre fuori dall’indefinitezza dell’attesa.

Una sera in cui la signora Dunker ed Annika se ne stavano entrambe nel salotto - la madre seduta alla finestra, preoccupata, con le mani in grembo, la figlia appoggiata al muro, con gli occhi che seguivano il lento movimento delle lancette sul quadrante del vecchio orologio - Kerstin entrò con un libro in mano.

- Ho trovato un libro così bello, - disse. - Sapete che cosa potremmo fare, già che dobbiamo starcene a casa tutte le sere? Una di noi potrebbe leggere ad alta voce mentre le altre fanno i lavori di casa.

La signora Dunker sorrise tristemente, ma per non turbare Kerstin si disse d’accordo. Fu Kerstin stessa ad iniziare. Il suo modo di leggere era piano e regolare, ed il libro era avvincente già di per sé. Lavorando, le altre due si misero in ascolto, dapprima di malavoglia, poi con crescente interesse.

- Ho la voce tanto stanca oggi, - disse Kerstin una sera dopo aver letto per un po’. - Ora potresti continuare tu, Annika. Tra l’altro devo aggiustare un paio di calze.

Annika prese il posto della sorella, ma era troppo impaziente nella lettura, incespicava, balbettava e sbagliava a leggere. Alla fine la signora Dunker perse la pazienza. Da giovane aveva frequentato una scuola di teatro e sapeva come ben trattare la lingua svedese.

- Non ti impegni, Annika, - disse. - Passami il libro e continua con quel benedetto maglione.

E così le due ragazze si misero ad ascoltare, piene di ammirazione e con interesse sempre più vivo, quei dialoghi che la signora Dunker recitava con tanta intensità. Quando si fece ora di andare a letto e il libro fu riposto, le guance dell’anziana signora avevano preso colore ed i suoi occhi brillavano.

- Mi vergogno a dirlo, disse, ma mi sono così tanto divertita! Prometti che mi lascerai leggere un pezzo anche domani!

- Certamente, se mi lasci la tua camicia da notte da rammendare! - disse Kerstin. E così fu.

Una mattina, la signora Dunker raggiunse le figlie in salotto, dove attendevano il bollettino giornaliero dall’ospedale.

- Dicono… dicono che è fuori pericolo, - disse sottovoce.

- Mamma! - strillò Annika con l’orrore nella voce. Non ne avevano mai parlato apertamente, lei ed Annika, né tantomeno il medico, ma entrambe sapevano bene che la meningite si concludeva solitamente o con la morte, o con la pazzia. Giorno e notte, la signora Dunker aveva cercato di tenere a bada un pensiero terribile, che però s’insinuava continuamente ed alla fine non poteva essere pensato: “Quale delle due cose preferiresti…?”

Al grido di Annika, Lisen Dunker aveva rivolto lo sguardo verso Kerstin, nell’assurda speranza che almeno lei non comprendesse quanto minacciosa fosse in realtà la buona notizia. Ma il volto di Kerstin indicava che anche lei sapeva. Per un istante, un’espressione terribilmente grave le si disegnò sul volto, ma subito dopo scomparve. Nessuna disse nulla, ed il silenzio nella stanza assolata era opprimente; persino il ticchettio dell’orologio, che misurava il breve tempo che le separava dal futuro, era pieno di angoscia.

La prima a parlare fu Kerstin, che disse con voce calma e ferma:

- Hanno detto niente su quando potrà tornare a casa?

- No, - rispose la madre sbrigativamente, e non poté fare a meno di pensare che Kerstin era senza cuore. Chissà se sarebbe mai potuto tornare a casa, pur avendo salva la vita? E se fosse tornato, come sarebbero andate le cose?

La prima volta che andarono a trovarlo, furono solo lei e Kerstin a raggiungerlo. Annika non ne aveva il coraggio. Ancora nel corridoio, la signora Dunker prese la figlia per il braccio e, con voce soffocata, disse:

- Entra prima tu, Kerstin. Io non ce la faccio. Non so se…

Quando la figura alta e snella della figlia attraversò la porta della stanza d’ospedale, Lisen Dunker si accasciò su una panca con la testa vuota. Non vedeva e non sentiva. Ma poco dopo, Kerstin tornò da lei, col volto raggiante, nonstante lacrime le scendessero sulle guance.

- Puoi entrare tranquilla, disse. È quello di sempre, anche se è veramente esausto. Non potrai restare lì troppo a lungo.

Anche il medico confermò che Georg Dunker aveva superato la terribile malattia con nient’altro che una lieve sordità, che era peraltro probabile si sarebbe pian piano risolta. Un tale esito favorevole, evidentemente, non era tanto insolito quanto i familiari si prefiguravano.

Quella sera, però, Kerstin crollò per la prima volta. Ebbe una violenta crisi di pianto, e fu Annika a doverla consolare e darle conforto. Come il dominio dei dittatori romani, il regno di Kerstin Dunker finì non appena passato il pericolo.

Una bella sera d’estate, qualche mese dopo, la famiglia si era riunita nel giardino assieme alla cara vicina, la signora Ridell. Georg Dunker se ne stava in un angolo, immerso nel suo splendido delphinium in fiore. Le donne non poterono fare a meno di commentare la sua buona ripresa. E così, come accadeva spesso, la conversazione tornò sulle terribili settimane della primavera passata.

- E tu, Kerstin, - disse la signora Ridell, - mi dicono che sei stata così incredibilmente forte e coraggiosa: eri davvero convinta sin dall’inizio che le cose sarebbero andate a finire così bene come poi sono andate?

- Non so, - rispose Kerstin imbarazzata. - No, niente affatto, in realtà. Del resto non so bene cosa mi passasse per la testa. C’era ben poco da pensare, non c’era niente che potessimo fare, a parte andare avanti.

- Già, - fece Lisen Dunker rivolgendo un sorriso alla signora Ridell, ci sono piante così strane nel giardino di Nostro Signore. Le più comuni, come noi due e molti altri, hanno bisogno di luce e calore per prosperare. Ma ce ne sono altre che fioriscono solo in condizioni molto più complesse.

Kerstin arrossì. Il suo breve momento di gloria le aveva dato una fiducia in sè stessa che prima le mancava, l’aveva resa più sciolta, più disponibile e comunicativa. Prima non avrebbe mai risposto come fece allora:

- Sì. ora so, per lo meno, che nella vita voglio fare qualcosa di impegnativo. Non so bene cosa, forse lo capirò col tempo, ma non sarà nulla di troppo facile.